15/02/13

Professionalizzare i tecnici? Alcune riflessioni personali

Prendo spunto dalla lettera del Coach che mi è arrivata qualche tempo fa e che ho pubblicato solo oggi, per fare alcune considerazioni sugli allenatori, sempre ammettendo la mia ignoranza di fondo, considerato che allenatore non sono e non lo voglio nemmeno essere e che di conseguenza non conosco a fondo i meccanismi di affermazione, professionalizzazione e preparazione che li riguardano. 

Parto da un assunto: il Coach della lettera parla di una gerarchia di ruoli tra gli allenatori già esistente in relazione al corso di conoscenze che uno si fa come allenatore nel corso della propria "carriera". Non la conosco bene questa gerarchia, ma ricordo di aver udito di istruttori, allenatori di primo grado... di secondo, e così via. L'altro giorno mi imbatto occasionalmente invece in una conversazione tra due esperti , proprio in relazione a questa stratificazione che dovrebbe basarsi sulle conoscenze e su un cursus honorum fatto di step successivi e quindi corsi ed esami, dove la nuova organizzazione tecnica territoriale voluta dall'attuale mandato, in realtà bypassi in molti casi e con diverse persone, la gerarchia basata sui "titoli", utilizzando un più italiano metodo, presumo, di conoscenze dirette e fiducia nelle persone individuate. Prima domanda: a che è servito strutturare le conoscenze, perdere tempo e denaro per accrescere la propria professionalità, se poi questa viene subordinata a chi in quello stesso corso è sotto di te? Me lo sto chiedendo da ieri, ma naturalmente anche nel calcio ci sono stati molti allenatori senza patentino con spiccate doti strategiche e di intelligenza innata, cui il Presidente della società di volta in volta, aveva voluto premiare. La differenza col calcio è che non è la Federazione che consente gli scavalchi, bensì il presidente-proprietario, e anche in questo caso, con paletti imposti sul titolo da allenatore (quindi eventualmente con l'affiancamento di persone abilitate). 

Ma non è questo su cui voglio far riflettere, anche se poi creare strutture in cui vengono meno alcuni requisiti come quella stessa professionalizzazione che la Federazione impone ai suoi tecnici, sembra essere una contraddizione. Detta in altre parole: a te tecnico, io Federazione impongo un percorso di studi ed esami per ottenere un determinato e certificato livello di abilità, poi, quando è il momento di stabilire i ruoli tecnici in seno a me stessa, io Federazione me ne infischio e scelgo chi voglio, scavalcando quelle stesse professionalità. Ma allora, scusate, a che serve studiare, spendere molto spesso di tasca propria, rinunciare a serate in famiglia, investendo in viaggi, relazioni, discussioni, tempo?

Detto questo, l'immagine che mi sovviene parlando di allenatori di atletica e risorse, è un'idea fondamentalmente perdente. Cioè, la mentalità comune è quella di pensare al ruolo di tecnico dell'atletica italiana come un aspetto direttamente collegato al bello e al cattivo tempo che può fare una Federazione, con tutto il portato di aspetti politici e amicali che abbiamo visto come nei diversi mandati susseguitisi ha stravolto completamente la stratificazione delle conoscenze, prediligendo i rapporti informali a quelli meritocratici. Se il coach "X", ha studiato, ha raggiunto l'apice della piramide dei tecnici, è riconosciuto a livello internazionale, non posso rottamarlo solo perchè "politicamente" ha espresso un giudizio diverso dal mio. Lui è un tecnico, a prescindere dalle sue idee politiche, e la cui professionalità si misura con i risultati che ottiene sul campo, non sulle sue opinioni su chi dovrebbe governare e come. Avrà tutto l'interesse a far bene sempre e non solo quando chi governa gli starà simpatico. Detta altrimenti: il tecnico è una figura amministrativa in seno ad un'organizzazione e non certo un politico. Ma tant'è: a me sembra che, come tutti i campi della vita comune esistenti in Italia, l'atletica non sia stata risparmiata dalle logiche "amicali".

Che poi... se ben ci pensate, è una guerra dei poveri e solo per le poche risorse fornite dalla Fidal nella stragrande maggioranza dei casi (tutto questo fermo restando che il merito, che si misura sui titoli, dovrebbe sempre essere salvaguardato). E anche se queste risorse fossero dispensate a pioggia, sarebbero sempre una tantum, e non facenti parte di un progetto a lunga scadenza. E' un problema di economia reale: ci sono poche risorse e bisogna redistribuirle su una popolazione vasta. E' chiaro che il risultato sarà mediamente mediocre e nessuno dei tecnici prescelti potrà mai fare un salto di qualità, se non per aspetti minimi. E' come se fossimo vittime dello "statalismo" (anche se di carattere volontario) per cui, o Fidal o nulla. E così ci si accontenta di quasi nulla, spesso si è costretti a lamentarsi della redistribuzione di quelle poche risorse, e, spessissimo, si è vittime del sangue amaro che ci si fa nel vedere che l'unica forma di soddisfazione cui si potrebbe ambire (oltre all'unica vera soddisfazione, ovvero quella data dai ragazzi allenati), cioè qualche incarico, viene redistribuita in maniera quanto meno discutibile e travisando le gerarchie. Magari anche l'invidia... perchè no?

Questo succede perchè, è fin troppo facile dirlo, manca la professionalizzazione di quel ruolo. Nessuno fa l'allenatore per professione, e tutti (o molti) vogliono a quel punto adire a quelle poche risorse a disposizione. Nessuno ci campa, e così nessuno si aggiorna, consapevole che quello non sarebbe un investimento sulle sue entrate, oltre che un diretto risultato sui ragazzi allenati. No, nulla di tutto questo. Ci si statalizza sperando che, cambiando il vento, cambino le direzioni dei flussi di risorse, ma che, come già detto, a parte qualche soddisfazione di "carica", non possono dare. 

Come ci si professionalizza? Possibile che tra le tante riunioni fatte, nessuno ha mai voluto approfondire questo aspetto? Possibile che si voglia ancora vivere "sperando" senza concretamente studiare delle vie di affermazione personale da... partita IVA? Tutto è legato alla propria ambizione: come dice un mio amico di cui pubblicherò a breve uno scritto, non bisogna prendersi per i fondelli o essere ipocriti sul carattere agonistico di uno sport. L'atletica è confronto, scontro, odio sportivo: non è "volemoce bene"... "oh... scusa se ti sono arrivato davanti!". L'atletica è primi e secondi, vincitori e vinti. Ambiziosi e perdenti. E così nel coaching, anche se con sfumature naturalmente più "sociali", più umane. Professionalizzare vuol dire necessariamente denaro, e non si può cavare sangue da una rapa che è già spremuta come quella della Fidal o pretendere di fare i Glenn Mills della situazione senza percepire un soldo, senza aggiornarsi (se non alla sera, su internet, leggendo qualche traduzione o studio di qualche volenteroso che ha messo a disposizione le sue conoscenze alla mercè di tutti con un atto di liberalità senza precedenti), facendo delle proprie piccole esperienze vincenti un feudo inespugnabile da tenere segreto. Per cosa? Per ambire ad un ruolo di tecnico con poteri organizzativi in seno alla Federazione? Tutto questo E' una guerra di poveri, lasciatemelo dire.

Mi sono dilungato troppo e a questo punto il lettore si è ormai scassato di leggermi.... avrei voluto dare la mia idea su come ci si potrebbe professionalizzare. Ma riflettendo, la darò in seguito... sarebbe il caso che quei pochi coaches che dovessero leggere questo articolo, si interrogassero su questo aspetto e cercassero delle vie "alternative" alle sovvenzioni di Stato. Che si trovassero strade (a me ne vengono in mente già due... difficile, impegnative, ma insomma, io ci ho pensato... ad essere più giovani si potrebbero pure provare) che partano da alcune riflessioni di logica, ovvero:

Primo assunto: non ci si può affidare, se si hanno mire di affermazione professionale, allo Stato e alle sue terminazioni (ci metto dentro sia la Fidal che i gruppi sportivi militari). 
Secondo: le risorse vanno cercate dove ci sono, non dove non ci sono. 
Terzo: le opportunità di crescita tecnica vanno trovate dove già ci sono percorsi strutturati, organizzazioni già sedimentate, e non certo in quella dell'atletica, che, come stiamo vedendo, ad ogni mandato viene ridisegnata ex novo, facendo perdere anche quel poco che forse si era riusciti a racimolare. 

Scusatemi, ma tutta questa organizzazione tecnica della Fidal, chiunque ne sarà il mandante passato e futuro, sarà sempre una grande cazzata: se il sapere comune è 100, non è che rimescolando i tecnici, creando una nuova piramide, diventerà 1000. Nulla si crea e nulla si distrugge, magari si massimizza qualche aspetto organizzativo, e si arriverà a 101. Bisogna andare verso altre realtà, non aspettare che altre realtà vengono all'atletica, perchè come si è visto, gli altri sono molto più avanti. Saran mica tutti kamikaze?

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