07/03/13

Da "Campioni Senza Valore" di Sandro Donati: il caso Ben Jonhson

L'estratto che sto per pubblicare fa parte di un testo che gira ormai in rete da anni e lo si può trovare anche in formato pdf ovunque. Basta cercare in google. Lo stesso, prima di pubblicare qualunque cosa sul mio sito ho chiesto tramite interposta persona al Professor Sandro Donati la possibilità di mostrare alcuni brani del libro, che forse per troppo tempo sono stati taciuti. Il libro, Campioni senza valore, fu pubblicato 24 anni fa, nel 1989 e, nonostante i contenuti esplosivi e il fatto che gettasse un'ombra terribile su tutta l'atletica italiana degli anni '80, non partorì (stando alle parole dello stesso Sandro Donati) alcuna querela nei suoi confronti. Ma non partorì nemmeno una reazione "politica" di "pulizia" che permettesse un ricambio completo e generalizzato dei personaggi che popolarono l'atletica italiana di quel tempo. Semplicemente tutto si chetò e oggi molte di quelle persone, al di là delle condanne di natura disciplinare o penale che non vi sono mai state, è giusto dirlo, rimangono in questo mondo sportivo nonostante le macchie indelebili sulla propria coscienza e le ferite mortali arrecate al "nostro" sport. La forza di Donati, che con quel testo andava a rovesciare il vaso di Pandora dell'eldorado dell'atletica italiana degli anni '80, fu quella di approntare un lavoro sotto molteplici aspetti "probatorio", verificando le proprie asserzioni una ad una, senza lasciare quindi il fianco scoperto a qualunque attacco. Non so il motivo per il quale il libro poi sparì dalle librerie, ma quelle conoscenze si persero lasciando furoreggiare persone che probabilmente avrebbero potuto liberamente continuare la loro esistenza in altri ambiti della vita. Qui sotto un pezzo relativo al caso di doping di Ben Johnson a Seul '88, giusto per iniziare a preparare i colpi più duri. Molto di quanto è presente su questo testo con l'evoluzione odierna di quelle vicende, ricordo, è contenuto nel "seguito" pubblicato recentemente "Lo sport del doping" che potete trovare in ogni libreria.

Re Johnson spodestato dal doping

Sabato 24 settembre 1988, dopo alcuni turni eliminatori alquanto incolori, Ben Johnson esplose nella finale dei 100 metri. Carl Lewis, Linford Christie e Calvin Smith, cioè il gotha della velocità mondiale, furono battuti, quasi umiliati. Johnson uscì dai blocchi con la prontezza e la potenza spaventosa di cui era accreditato, ma questa volta conservò integralmente l'abissale vantaggio nella seconda parte della gara. 9"79, vale a dire il nuovo record mondiale, valsero all'impresa i toni della leggenda. Ventiquattro ore dopo, il suo medico, consigliere ed amico Jamie Astaphan spiegò ai giornalisti di tutto il mondo come fosse riuscito a fare di Johnson un imbattibile superman: «Ho seguito quasi più lui dei miei figli... Quando la madre me l'ha portato a quattordici anni, era magro come questo dito... Ben è il primo uomo bionico... L'abbiamo costruito pezzo per pezzo, rendendo potente ogni sua fibra muscolare. Ho speso tanto tempo con Charlie Francis [l'allenatore] per arrivare a questo punto. Adesso mi sento come svuotato, esausto...» Johnson, al contrario, era diventato sempre più pieno e vigoroso.

Il dottor Astaphan parlò, in quella occasione, di una parte soltanto delle sue fatiche «scientifiche». Non fece infatti alcun accenno alle contemporanee costruzioni, pezzo per pezzo come un meccano, della velocista Angella Issajenko, dell'altro sprinter Desai Williams e dell'ostacolista Mark Me Koy. Per modestia, probabilmente. Erano passate poche ore dalle dichiarazioni di Astaphan quando, dal laboratorio antidoping, filtrarono le prime voci relative a Johnson che furono raccolte da un'agenzia di stampa francese: «Le urine dell'atleta canadese conterrebbero tracce di uno steroide anabolizzante del tipo stanozolol che figura nella lista dei prodotti proibiti.» L'Olimpiade ne fu sconvolta. Le voci divennero in poche ore una serie di spietate conferme: squalifica del velocista, annullamento del record mondiale appena conseguito e revoca della medaglia d'oro dei 100 metri. La decisione fu presa all'unanimità dai membri del ciò. L'Olimpiade di Seul divenne l'Olimpiade del doping, o meglio, l'Olimpiade della lotta al doping. Una lotta ingaggiata, per la verità, senza esclusione di colpi, solo contro gli sconosciuti e poco sponsorizzati campioni del sollevamento pesi e soffocata, invece, da forze superiori nei confronti dei divi dell'atletica.

Alle spalle di Johnson, fu trovato prima positivo e poi un po' positivo e un po' negativo, Linford Christie, medaglia di bronzo e neoprimatista d'Europa. Alla fine se la cavò con un'ininfluente tirata d'orecchi. Della soave Florence Griffith non ci si limitò a descrivere la corsa travolgente, le lacrime e i sorrisi. Ai suoi sistemi «integrati» accennarono variamente alcune sue avversarie, come ad esempio Evelyn Ashford, ed alcuni atleti di specialità diverse, come il campione olimpico degli 800 metri a Los Angeles Joachim Cruz. Delle strane fattezze di Florence Griffìth scrisse persino Giorgio Bocca sulla prima pagina di «Repubblica». Tecnici qualificati, come Vittori, sottolinearono l'inverosimiglianza di una carriera consumata interamente ai margini dell'eccellenza e poi improvvisamente proiettatasi, una volta oltrepassata la soglia, non più verdissima, dei ventinove anni, oltre l'orbita del genere femminile. Florence Griffìth, a dispetto delle impressionanti fasce muscolari accumulate in un solo anno, uscì indenne dall'antidoping coreano. Un asso del decathlon, il tedesco dell'Ovest Jurgen Hingsen, si fece estromettere fin dalla prima gara, i 100 metri, per false partenze (tre nel dectathlon). Qualcun altro imboccò anzitempo la via di casa, rinunciando a gareggiare. In questo modo l'atletica poté limitare i danni, in verità già disastrosi per effetto dell'unica positività punita, quella di Johnson.

Le caratteristiche della positività di Johnson a Seul consentirono agli esperti di affermare che l'assunzione di anabolizzanti era avvenuta in un arco di tempo piuttosto esteso. Si sospettò immediatamente sulla efficacia del controllo antidoping a cui era stato sottoposto Johnson, poco più di un mese prima, in occasione del meeting internazionale di Zurigo. Lo staff di Johnson cercò di accreditare la tesi di una macchinazione ordita dalla mano sconosciuta che aveva premurosamente offerto una bevanda al campione prima della gara. L'aneddoto della bibita drogata era stato recitato, negli anni settanta, un'infinità di volte dai faticatori della bicicletta, lungo le strade infuocate del Tour de France o del Giro d'Italia. Ogni volta che erano incappati nell'antidoping, si erano aggrappati al salvagente di una borraccia galeotta, offerta da uno sconosciuto lungo i tornanti del Tourmalet o dello Stelvio, proprio quando più acute erano la fatica e la sete. La storia della borraccia, riferita al clan presuntuoso e superefficiente che circondava Johnson, apparve goffa.

Quattro mesi dopo, in un Canada scosso dalla disavventura coreana di Johnson, il governo deciderà di fare chiarezza ed aprirà una indagine. Ma già nel paese erano circolate nuove circostanziate accuse su Johnson e sul suo clan. La fonte dei definitivi elementi di accusa fu il cuore dello stesso staff di Johnson: il suo allenatore Francis e la sua compagna di allenamento e di iniezioni Angella Issajenko. Francis, chiamato a deporre dalla commissione di indagine parlamentare, si trovò nell'impossibilità di continuare a negare e scelse di vuotare il sacco: illuminò un angolo del doping, quello abitato per anni dagli sprinter canadesi. Per chi, come me, ha frequentato a lungo l'ambiente dell'atletica internazionale, l'angolo messo a soqquadro fu solo una parte, scontata ed infinitesimale, dell'universo del doping sportivo, ma per i non addetti ai lavori le rivelazioni furono sconvolgenti.

Francis, incalzato da circostanze obiettive come le tracce di stanozolol riscontrate a Seul sul suo «fenomeno», le rivelazioni di Angella Issajenko, la fuga precipitosa di altri atleti del suo gruppo, le accuse di medici e tecnici canadesi, si arrese o, forse, cinicamente pensò che non fosse più conveniente negare. Giorno dopo giorno, le sue deposizioni riempirono le pagine dei verbali della commissione d'indagine e i taccuini dei giornalisti di tutto il mondo. Francis rivelò che Johnson si era drogato fin dall'inizio della sua carriera. Che lui stesso lo aveva drogato. Ricostruì l'evoluzione delle terapie, a base di steroidi anabolizzanti e di ormone somatotropo, da una prima fase artigianale e quasi familiare, a quella «scientifica» del dottor Astaphan. Ben Johnson, imparando progressivamente a destreggiarsi fra ormoni, farmaci di copertura, curve di scomparsa dalle urine e antidoping compiacenti, aveva potuto sfrecciare trionfalmente sulle piste di tutto il mondo nelle più importanti manifestazioni internazionali. Era drogato anche in occasione dei campionati del Mondo di Roma. I 9"83, impiegati dal giamaicano-canadese nello stadio Olimpico di Roma, erano stati il frutto non di una pista più corta o di un trucco nel cronometraggio elettronico, come pure aveva sospettato qualcuno, ma degli steroidi anabolizzanti. È mia convinzione che il valore reale di Johnson, senza doping, sia calcolabile intorno ai 10"20. Le rivelazioni di Francis non mi sorpresero minimamente. Era tutto quello che mi aveva confidato Pierfrancesco Pavoni un anno prima.

Francis dichiarò, fra l'altro, che al largo di Seul i sovietici avevano ormeggiato una nave appositamente attrezzata per effettuare controlli antidoping preventivi sui propri atleti e verificare, minuto per minuto, che il mascheramento delle positività non mostrasse crepe. Per gli atleti trovati positivi dal laboratorio navigante, erano state prefabbricate la diagnosi e la prognosi sufficienti a far loro disertare le gare olimpiche. La rivelazione di Francis fu interpretata da qualcuno come il tentativo di colpire alla cieca nel mucchio, per screditare l'intero sistema e riuscire così a mimetizzare le proprie responsabilità, ma anche questa affermazione sarebbe poi stata clamorosamente confermata direttamente dall'URSS. La rivista giovanile sovietica «Smena» avrebbe infatti rivelato che la nave Mikhail Sholokhov era rimasta ormeggiata al largo di Seul per tutta la durata dei Giochi. Attrezzata non per lo spionaggio, ma con un laboratorio antidoping da due milioni e mezzo di dollari: «Sveliamo tutto questo per dare un contributo alla denuncia ed alla soluzione del problema doping; abbiamo raggirato il controllo antidoping di Seul.» Un altro angolo della caverna, sensibilmente più grande di quello canadese, era stato inquadrato, seppure solo di sfuggita. Vi si intravedevano donne mascolinizzate e rese sterili dai trattamenti ormonali, uomini divenuti impotenti o colpiti da gravi patologie al rene e alla prostata, atleti costretti a drogarsi per non essere estromessi dalla squadra nazionale. Tanti altri angoli della caverna restavano ancora nascosti nel buio. Eppure Kerr a Los Angeles aveva fornito la chiave e gli strumenti per esplorare l'antro. Eppure David Jenkins, che con gli sferoidi anabolizzanti si era arricchito e si era autodefinito, al cospetto di un tribunale statunitense, un criminale, aveva chiaramente detto che i due terzi dei campioni di atletica leggera presenti a Seul erano drogati. Eppure il dottor Astaphan aveva affermato che lontano dal doping a Seul erano rimasti solo i rappresentanti di qualche sperduto paesino del terzo mondo. Da anni, chi avesse voluto, avrebbe potuto aprire la caverna del doping nella sua estensione mondiale. Ma chi ne aveva interesse? Non certo i dirigenti della federazione mondiale di atletica, dediti in quegli stessi anni a montare un'impalcatura, via via più complessa, di sponsorizzazioni, diritti televisivi, relazioni diplomatiche, fondazioni fantomatiche e di comodo. La soluzione poteva arrivare da fuori delle organizzazioni sportive, dalla società civile: dalle indagini governative, dalle leggi speciali, dagli organismi sanitari extrasportivi nazionali ed internazionali, dal sistema educativo scolastico, dai politici e dagli intellettuali, nell'eventualità che questi ultimi si fossero accorti che lo sport è un fenomeno sociale e non solo il grande baraccone dove la domenica si esibiscono i moderni gladiatori.

Per tornare a Johnson, Francis ha dichiarato: «Non utilizzavamo più lo stanozolol da molto tempo, lo avevamo sostituito con altri tipi di steroidi anabolizzanti, per cui non capisco come Ben possa essere risultato positivo al controllo per questa sostanza.» Una volta rotti gli argini della confessione, Francis non aveva alcun interesse a mentire su questo punto specifico. Due ipotesi possono spiegare il mistero. La prima è che Johnson, accuratamente «svuotato» di qualsiasi traccia di steroidi, sia rimasto effettivamente vittima dell'iniziativa dolosa di qualcuno che voleva incastrarlo. L'altra ipotesi, più banale, è che i «movimenti» farmacologici intorno a Ben Johnson fossero divenuti così vorticosi e incrociati da sfuggire al controllo dello stesso Francis. Il prescrittore e l'iniettore di steroidi erano stati una volta Francis, una volta Astaphan, una volta Matuszewski; e in qualche sporadica occasione Johnson aveva accettato i consigli di personaggi estranei al suo staff. Verosimilmente, quindi, Johnson scontò a Seul le difficoltà che Astaphan progressivamente incontrava nella sua attività di coordinatore farmacologico. L'organico dell'equipe sanitaria era diventato estremamente flessibile. Qualcuno, che si era infiltrato approfittando della confusione dei ruoli, avrebbe potuto provocare, deliberatamente o accidentalmente, la positività di Johnson. Per una coincidenza che potrebbe non essere fortuita, Astaphan si era formato professionalmente alla scuola bulgara, che si era trovata particolarmente a mal partito con i sistemi antidoping attuati a Seul. Per una volta, i maghi del doping sarebbero stati anticipati dai controllori. Qualunque delle ipotesi dovesse risultare veritiera, è certo che si trattò di un incidente di percorso assolutamente casuale, in alcun modo collegabile a un piano coordinato di lotta al doping che avrebbe presupposto l'organizzazione di un sistema di controlli, incrociati e a sorpresa, da attuare nei periodi più sospettabili dell'anno.

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