09/10/09

Le ipocrisie del doping

Dopo aver buttato nell'Arena mediatica la positività al controllo anti-doping della giovane Elisa Desco, ho trovato il tempo per riflettere su alcuni aspetti. Il primo di tutti è che non c'è molto da dire quando un atleta viene trovato positivo: a parte prendersela con lui, inveire nei suoi confronti aspettando che qualcuno degli altri forumisti possa dire qualche cosa che non sia la pubblica reprimenda e ghettizzazione, non si può. Sarà ma la cosa non mi convince, perchè alla fine la discussione sul doping è solo a senso unico e non porta da nessuna parte. E dove diavolo dovrebbe portare, direte voi? Bè, penso ad esempio a creare una cultura sportiva positiva o talmente vincolante da indurre i dopati a fare un passo indietro. Le grida manzoniane di oggi secondo me non portano a nulla, perchè sono intrise di rabbia (giustificata), astio, ma poco profondità oggettiva su un problema che si ferma esclusivamente all'atleta e al suo errore. Io la vedo in maniera diversa. Innanzi tutto bisogna distinguere due tipologie di pratiche dopanti: quelle degli atleti di seconda fascia che obiettivamente non possono ambire a molto, e quelle degli atleti "top". Sulla prima tipologia di doping, quella degli ignoranti, non perdiamo nemmeno tanto tempo: se un master arriva a doparsi vuol dire che è proprio un cerebroleso, con tutto rispetto con chi ha avuto questa sfortuna. Sono le schegge impazzite di un sistema che ogni tanto produce qualche mostro, che per solitudine (cos'altro?) deve imporsi almeno in un campo della vita. Squalifichiamoli pure a vita. Ma il doping più ipocrita, a mio modo di vedere, è rappresentato da quello degli atleti di primo livello, dai campioni o dai futuri campioni, proprio come la Desco. Ora, pensateci bene... il doping allo stato attuale delle cose colpisce esclusivamente l'atleta. E tutti a darle addosso. Io, da sociologo imberbe, sostengo invece che gli atleti di vertice facciano parte di una "rete umana", dove l'atleta ne è l'espressione finale, l'output. Non voglio con questo de-responsabilizzare gli atleti, cha hanno grandi colpe, ma voglio quanto meno responsabilizzare altre persone che con l'atleta hanno o avevano a che fare. Ad esempio: l'allenatore. Può un giovane atleta, sul trampolino di lancio di una grande manifestazione internazionale, cominciare ad assumere sostanze dopanti senza che il proprio allenatore si accorga di nulla? Un giorno va come un regionale, e il giorno dopo viaggia come un Pendolino e questa persona, che gli vive accanto tutti i giorni, che spesso ne condivide i dubbi, le sensazioni, i miglioramenti e i peggioramenti, non si accorge di nulla? Suvvia, le favole ce le raccontavano da bambini! Quella persona dovrebbe essere squalificata a vita, più che l'atleta, per il vulnus morale arrecato al mondo dello sport. Soprattutto perchè l'allenatore non solo rappresenta la guida tecnica, ma nel 90% dei casi anche quella psicologica. E' solitamente più maturo dell'atleta che segue. Il rapporto (parlo sempre di atleti "top") è biunivoco, non univoco! Quindi, quando nella storia si bloccano certi personaggi che nella gerarchia delle decisioni rivestono ruoli apicali, spesso si tagliano i fili di queste reti umane devianti. Ma ci pensate se le pene dell'antidoping si riversassero sugli allenatori, quale controllo si avrebbe da parte del sistema sulla pratica stessa del doping? Si creerebbero o coppie devianti (allenatori-atleti) perfettamente conscie della loro deviazione (quindi perseguibili senza ritegno) o l'istituzione della figura dell'allenatore-controllore, che per non perdere il proprio lavoro (o per non vedersi gettato nella gogna dell'infamia) comincerebbe ad avere un controllo più stretto sui propri atleti e le loro pratiche, anche i più birichini. Poi è chiaro che qualche innocente ci finirebbe dentro, visto che la giustizia antidoping è molto inquisitoria e molto poco garantista: mentre nella giustizia penale l'accusa deve provare ciò che dice, nella giustizia sul doping sembra più che sia la difesa a dover provare la propria innocenza... e così molti dopati, adendo alla giustizia ordinaria riescono a farla franca (visto che in molti casi si viene condannati sul solo sosetto o sugli indizi) sventolando poi le sentenze di assoluzione presso i tribunali sportivi competenti. Oltre all'allenatore ci sono altre figure che gioco-forza entrano nei meccanismi di somministrazione del doping: pensiamo solo al medico! Non penso che il giovane atleta acquisti per strada una dose di CERA, una siringa, e poi si nasconda in un vicolo ad iniettarsela... suvvia, anche in questo caso. I medici responsabili (che già adesso, se provato, finiscono nei meccanismi della giustizia ordinaria) in questo caso dovrebbero perdere la possibilità di esercitare la professione medica, almeno legata alla pratica dello sport! E le altre figure? I direttori tecnici della squadre di ciclismo non sanno davvero mai nulla? Quanta ipocrisia! Se squalificassero anche loro, all'atto della positività di un loro atleta, vedreste come il doping verrebbe arginato nel ciclismo! Loro vivono di quello (nel senso di Direttore Tecnico) e visto che tutti i ciclisti terminata la loro carriera non vedono l'ora di finire su un'ammiraglia, il loro posto sarebbe subito guadagnato da qualcun altro. Nell'atletica questo ruolo non esiste, ma qualche presidente privo di scrupoli sono sicuro che da qualche parte esiste... Per concludere: l'atleta dopato, oggi, non è un pazzo solitario che vaga alla ricerca di pusher per le palestre. E' solo un raggio di una ruota, che, chissà perchè, non si vuol colpire... ecco il perchè della mia tristezza per la giovane Elisa Desco.

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