24/10/11

3 azzurri alla corte di Loren Seagrave... cambia il vento?

Nessuno ha ancora commentato (almeno in maniera critica) ufficialmente questa vicenda che apre una breccia in quella cortina di ferro che è la religione velocistica italiana. Anni di immobilismo metodologico che si è diffuso a tutti i livelli, sia orizzontale che verticale, con un credo immarcesibile e tante piccole sette che a quel credo, bene o male si sono rifatte. Il problema fondamentale di questo elefantismo italiano è sempre stato l'assenza di professionismo nella nostra atletica. Se forse qualche soldo l'hanno visto in questi anni gli atleti, di sicuro nulla hanno visto gli allenatori. E con ciò, naturalmente, il mondo dei coach si è completamente saturato di... volontari. Volontari che nel dopo-lavoro (di qualche cosa bisogna pure campà) hanno sempre trovato il tempo e la passione da dedicare a questo meraviglioso sport che è l'atletica, ma che non essendo "professionisti" non hanno mai potuto uscire dal monoteismo più diffuso qui in Italia (soprattutto in tema di sprint).

Non hanno potuto migliorare e migliorare gli atleti che hanno scovato, trovato, ricevuto... Raramente si trovano coach in Italia che riescono a produrre più di due atleti di prima grandezza, cosa che lascia sospettare come forse la variabile del talento dell'atleta sia preponderante sulla bravura dell'allenatore. 

Il professionismo, volenti o nolenti, porta a migliorarsi (se si vuole continuare a fare un'attività connessa e zeppa di variabili come lo sport), ad istruirsi, a cercare, a sperimentare, a studiare. In Italia, chi in tutti quest'anni aveva avuto queste opportunità (ovvero chi ricopriva, retribuito, posti di carattere "istituzionale") ha invece cercato di consolidare i vecchi credo, mentre il mondo prendeva un'altra strada. Sbagliando l'approccio metodologico, votato ad un cieco revisionismo di quelle che erano le teorie di 20 anni prima. Mai un confronto con quello che succedeva "fuori". La "scuola italiana", votata alla fatica sempre e comunque, si è dimenticata di quelle che sono le risposte fisiologiche dell'organismo a determinati input.

Oggi c'è internet, che ormai è un'entità senza controllo, che trasmette conoscenze e avvicina le persone: le cortine, come ampiamente dimostrato di questi tempi, sono state quasi tutte abbattute. Le conoscenze si diffondono in maniera più veloce, e non ci sono solo uomini soli a comando (tranne qualche deprecabile eccezione) che dettano le forme e i modi in cui la conoscenza debba essere interpretata. E nel frattempo quelle conoscenze granitiche si sono sgretolate, e ormai la tendenza è a criticare quei modelli e a cercarne di nuovi.

In quest'ottica, come interpretare quindi il passaggio di 3 atleti di primo piano dell'atletica italiana presso la corte di Leron Seagrave? Bè, prima di tutto una sconfitta di... Di Mulo. Comunque la si voglia guardare. O comunque un venire meno di qualche cosa. Ma come, una delle sue più grandi scoperte, abbandona e se ne va negli States? Che è successo? E la Grenot? E Galvan non era allenato da uno dei più illuminati coach dello sprint italiano delle ultime stagioni? Chissà davvero cosa sarà successo, se alla base di tutto c'è soltanto una scelta di vita, o un'opportunità da non perdere, o un tentativo, o... chissà cosa. Però c'è stato, e buona fortuna ai primi 3 che hanno fatto questa. Anzi, a dire il vero Andrea Colombo, talento cristallino e sprinter di fine anni '90 e dei primi '00, era andato in Florida per diversi mesi. Il primo pioniere.

Ora, domanda ingenua: ma perchè Loren Seagrave? Ma chi è Loren Seagrave? Su tutti i siti e i giornali che pubblicizzano il passaggio dei 3 atleti, si parla di un Loren Seagrave allenatore di Angelo Taylor e Dwight Phillips. Cioè uno che fa i 400hs (ma un pò in affanno nelle ultime stagioni) e l'altro il lungo. Poi una stagione come allenatore di Donovan Bailey (il 1998). Ma anche Justin Gatlin. A parte il personaggio e il suo curriculum, la cosa ci porta a considerare un altro sistema legato allo sport e al professionismo. Il coach negli States appare un soggetto cui ci si riferisce con la corresponsione di denaro (nel caso dei tre italiani, penso la Nike).

I coach si creano il proprio curriculum, il proprio campus, la propria scuola. Poi, evidentemente, sono permeabili ai diversi sport, come Seagrave, che ha seguito anche diversi atleti della NFL. E la crescita prosegue grazie anche a risorse derivanti da sport più ricchi, ma che puntano alle medesimi doti (le diverse componenti della forza e della velocità nel nostro caso). Una massa di dati immensa, creata quotidianamente. In Italia il calcio, per assurdo, non è riuscito a dare un minimo contributo a nessun aspetto atletico, nonostante i milioni di euro che ci girano intorno. Non è mai esistita permeabilità tra i due mondi. E i preparatori atletici provengono nella stragrande maggioranza dei casi da itinerari avulsi dal mondo dell'atletica. O se provenivano da questo mondo, di sicuro non hanno spedito qualche informazione utile a tutti.

Concludo: quando si vedranno anche in Italia queste "scuole" (come quella di Seagrave, Braumann, Mills...)? Eppure esistono già scuole di tennis: con un head coach, staff medici, psicologi... pagati dagli atleti. Sì, ok, nel tennis girano molti più soldi... Purtroppo l'intoppo al meccanismo alla professionalizzazione è alla base: se tutti i migliori atleti italiani appartengono a società militari con stipendi quindi bloccati a 1400/1500 euro, sarà assai difficile che questi prendano e paghino coaches, innescando il circolo virtuoso che porta ad un miglioramento generalizzato. E così ci si dovrà continuamente relazionare e affidare in toto ai tecnici federali, alle loro naturali limitazioni, alle loro passioni e pulsioni, e molto spesso ai loro errori, figli di una limitatezza di vedute che non gli si può nemmeno imputare.

Per questo forse sarebbe il caso di permettere il tesseramento individuale: atleti dal grande nome, dovrebbero avere la possibilità di guadagnare e mettersi "in proprio", facendo scelte tecniche di alto lignaggio, entrando nei circuiti internazionali. E poi garantendosi anche quel quid di denaro per pensare al dopo carriera: a 34/35 anni, comprendo bene che terminata la carriera, vivendo di pochi euro, ci si trova di fronte ad un baratro. Con un lavoro "statale", ci si garantisce il futuro. Con un tesseramento "individuale" se non arriva sufficiente denaro, ci si inventa "mantenuti" dei propri genitori. Questa è la vita, e queste scelte devono essere considerate.

Scusatemi, purtroppo sempre di soldi si parla, ma non sembra esserci un'altra via. Veder partecipare i migliori atleti italiani a meeting regionali anzichè alla Diamond League o qualche Challenge internazionale, la dice lunga sullo stato della nostra atletica. 

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