22/07/09

Macchè Simone Collio: meglio Jamel Chatbi

E' davvero poco logico il mondo dell'atletica leggera italiana. Sono ormai due giorni che imperversano questioni davvero stucchevoli sul tempo di Simone Collio sui 100 metri ad un meeting regionale a Rieti (cosa sarebbe stato se l'impulso sullo sparo fosse stato fatto in un meeting della Golden League? Probabilmente adesso non saremmo qui a dubitare o semplicmente non ci sarebbe stato il tempo): adesso il mondo si divide in Ceruttisti e fan di Collio, soprattutto dopo la frase sibillina dello stesso Cerutti nel proprio profilo su Facebook (citata pure dalla Gazzetta dello Sport). Ma per cosa, santiddio? I grandi dualismi della storia dello sport sono stati sempre funzionali alla conquista di qualche cosa di importante. Ha quindi più senso oggi porsi quesiti amletici se fosse stato meglio (nella sfida intergenerazionale) Pietro Mennea o Livio Berruti (entrambi Campioni Olimpici) o gettarsi a capofitto nella guerra di nervi tra Fabio Cerutti e Simone Collio (vincitori al più di medaglie ai Giochi del Mediterreo) per un primato che oggettivamente vale poco? Senza poi dimenticare che il dualismo è in realtà una sfida trina, con il performante Di Gregorio (anche se nelle ultime uscite è apparso un pò stonato). Fate vobis, a me la questione sembra davvero di poco conto. Si sta parlando di due buoni atleti (con tendenze all'ottimo ma non penso che si arrivi mai all'eccellenza internazionale), ma che nelle more delle loro gambe non potranno mai ambire ad una medaglia in una grande manifestazione internazionale (ciò che poi conta veramente in una vita sportiva di primo piano) per entrare di diritto nella storia dell'atletica. Parole al vento (ne sto leggendo tante e molte sono pure stucchevoli). Tempi che cambiano: parliamo con il t9 e quindi non lamentiamoci se arriviamo a sbranarci per un tempone ottenuto ad una gara regionale da un atleta talentuoso e che rischia di diventare, se non confermato nel breve periodo, la sua condanna. Piuttosto, nessuno parla di Jamel Chatbi. E che c'entra, direte voi? Ne parlo spesso, perchè abbiamo condiviso gli stessi spazi sportivi (la pista di Cividino, a cavallo tra le province di Bergamo e Brescia... 5 utilizzatori totali in 8 anni), il candido affetto della stessa persona che ha scoperto Jamel su un campo da calcio (l'anziano Arrigo Fratus) e che adesso lotta strenuamente contro un grave imprevisto della vita, e diversi pensieri sparsi buttati lì tra una ripetuta e l'altra. Ebbene Jamel ha corso i 3000 siepi al meeting di Tangeri un paio di settimane fa in 8'08"86, portandosi sulle spalle la maglietta del Reame del Marocco. Jamel vive in Italia praticamente da quando aveva 7/8 anni (una quindicina di anni circa) e c'è stato un momento della sua vita sportiva (circa 3 o 4 anni fa) in cui sperava di poter essere naturalizzato italiano (detenendone i requisiti, naturalmente) per poter ritagliarsi un pezzo di cielo, un lavoro, un futuro. Oggi sul suo carro stanno salendo in molti: alcuni di loro che pubblicamente si vantano di lui e dei suoi risultati, in realtà talvolta non gli sono stati così vicini come sembrerebbe. Molti gli hanno mentito, molti gli hanno fatto promesse, anche legate alla possibile naturalizzazione in tempi brevi (ma non mi arrischio a fare nomi): poi evidentemente Jamel non ha avuto la stessa bella presenza di altri atleti naturalizzati in tempi brevi, e di lui si sono letteralmente dimenticati (nonostante le promesse!). E questo nonostante negli ultimi 3 anni sia sceso costantemente sotto gli 8'30" nei 3000 siepi, laddove la nostra martoriata nazione sportiva (nelle prove superiori ai 1500) è davvero all'anno zero. Amareggiato, ha percorso la sua strada, da solo: magari accompagnandola con un'imprecazione in bergamasco (conosce pure il dialetto) ma di grandissimo coraggio. Sfidare il mondo partendo da Castelli Calepio (BG), rischiando di suo con l'abbandono del posto sicuro da operaio (che deve sfidare in pista coloro che ricevono uno stipendio dallo stato e possono vivere solo di quello) e vincendo prima di tutto le grandi conflittualità del mezzofondo marocchino (organizzative e interrelazionali), quindi imponendosi con i risultati internazionali (partendo proprio dai giochi del Mediterraneo). Oggi il suo 8'08"86 sarebbe a meno di 3 decimi dal record italiano di Francesco Panetta (8'08"57), ottenuto, udite-udite, 22 anni fa. Al momento è settimo nelle liste mondiali dell'anno, preceduto da 3 keniani, 2 francesi e un atleta del Bahrein. Per uno così qualcuno si sarebbe dovuto muovere per tempo, presumo, soprattutto perchè la sua "italianità" è molto più radicata (oltre che ad essere un suo diritto ampiamente acquisito secondo la legge) di quella di decine di altre persone italiane. Guarda caso la possibile naturalizzazione sarebbe potuta avvenire sotto questo regime Fidal (rinnovato l'anno scorso) ma evidentemente esistono due pesi e due misure (e le errate valutazioni sul potenzialie degli atleti): la società italiana in pochi anni si è rivoluzionata, e stiamo già vivendo la seconda generazione (come Jamel) della prima ondata di migrazioni dai paesi meno abbienti. In Francia la squadra di atletica è costituita per un buon 80% da atleti figli di emigranti, l'Inghilterra l'integrazione è anche più radicata. Jamel era un italiano per diritto, per istruzione, per rispetto della legge, ma NESSUNO (organi federali in primis, che sono riusciti nel caso Grenot ha "tagliare" sui tempi della naturalizzazione, così come riferito a suo tempo) ha pensato bene di dargli l'opportunità. E così la scelta di essere marocchino, al 100%, anche se in fondo in fondo, una buona percentuale di testardaggine tipicamente bergamasca gli è rimasta e gli rimarrà. Continuiamo così a farci sfuggire le opportunità, e a prediligere la politica dell'immagine (come l'esaltazione senza limite delle vittorie agli Euroindoor, unica manifestazione biennale dove Arese riesce a sorridere) a quella fredda ma non mendace dei numeri. Statisticamente, ci sono più possibilità di trovare un talento se aumento il numero di praticante presi in considerazione, non il contrario. Concludo: l'atletica italiana è esclusivamente figlia del caso, cioè i "campioni" son sempre frutto della pura casualità e soprattutto del lavoro fatto a livello periferico da tecnici appassionati e non remunerati. Non esiste una vera e propria "scuola" italiana in nessuna specialità, e quelle del passato sono ormai dimenticate o lasciano retaggi difficile da superare e che spesso più che essere un valore aggiunto, sono vere e proprie tare. Anzi, una scuola c'è: la marcia. Affidiamoci a lei anche per Berlino.

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