10/09/12

Morire d'amore... per l'atletica

...detto così sembra quasi riduttivo. L'atletica non può mai essere tutto nella vita di nessuno. E' una parte della giornata, è uno sport: nella vita c'è altro. Deve esserci altro. Lo sport è complementare all'esistenza, non può esserne la ragione. Così la penso io... la pensavo. Dopo aver riflettuto un pò, oggi.
In realtà può essere tutto quando non hai più nulla, o dalla vita hai ricevuto già tutto. O ti manca una finestra di libertà, un progetto, un obiettivo. Così, ieri, ci ha lasciato in un modo che lascia storditi Vittorio Colò, il pioniere del mondo master. Questo per chi non l'ha vissuto, conosciuto, ne ha ascoltati i consigli, i suggerimenti, gli incitamenti. Per tutti ha rappresentato una sorta di fenomeno di longevità (quale esso è, indubbiamente), per il quale si contano decine di record, centinaia di medaglia, una serie sterminata di imprese, alcune delle quali non sono state nemmeno riconosciute, e probabilmente non se ne ha nemmeno contezza.  
Quando ho iniziato a "far atletica", nel 1985, Lui era già lì, quel signore anziano con la tuta verde dell'Atletica Riccardi, i capelli bianchi, il sorriso (sempre). In mezzo al campo, nell'erba, oppure, stranamente, sempre sul rettilineo opposto del XXV aprile. Mi sarebbe piaciuto chiedergli perchè lui allenasse "di là" lontano dai clamori e dalla visibilità del rettilineo finale, ma oggi sembra tutto fin troppo chiaro.
Decine di ragazzi, sempre, con lui. Quelli che poi sono diventati i miei migliori amici di un lunghissimo cammino. Sapete, nella vita cambiano tante cose, passano tante persone, ma "quelli dell'atletica", almeno per me, sono stati sempre gli stessi. E sono quelli che meno sono cambiati in quasi 30 anni. Su un campo d'atletica la fatica accomuna, le convenzioni sociali cadono più che in altri campi della vita (forse perchè la fatica non si nasconde e il cronometro è sempre testimone di verità) e le persone che conosci sono quelle... più reali. E' più difficile indossare una maschera dopo aver corso 6 o 7 volte i 300 con tre minuti di recupero. Si è naturalmente più spontanei.
Vittorio viveva sopra la pista, nel palazzone marrone che faceva angolo dall'altra parte della strada, non so a che piano. Di sicuro si affacciava alla finestra da lassù ogni giorno, ed era subito in pista. Non poteva non vederla. Dopo l'operazione al ginocchio, probabilmente, quello sguardo dev'esser diventata una tortura per lui. 
Rimangono gli eserciti di ragazzini in pista, e la sua figura che ha rappresentato, forse, quella di uno degli ultimi "educatori" in circolazione, non solo un "allenatore". Vorrei raccontare mille aneddoti, ma vorrei che lo facessero chi direttamente l'ha vissuto quotidianamente, per sottolineare la grandezza di un uomo, che insegnando l'atletica, in realtà ha insegnato pezzi di esistenza a tanti giovani. 
Guardandolo oggi che tutto è finito, forse ne si comprende meglio la grandezza: non ha mai cercato i campioncini, probabilmente non gliene fregava nulla. "Avviava all'atletica", anche se in realtà "introduceva alla vita". Era una missione, lì, in mezzo a tutti quei giovani, ad esibirsi lui stesso nel triplo a 90 anni, negli ostacoli, nell'asta (la prima volta che lo vidi provare l'asta, quasi non credevo ai miei occhi) ad essere d'esempio. L'esempio. 
Con lui sono passate ondate di ragazzi che hanno composto l'ossatura della Riccardi per generazioni. Non si vinceva mai il campionato di società, le soddisfazioni di trofei e medaglie erano rare e osannate come eventi olimpici, ma era come se succedesse ad ogni trasferta. Succedeva quando ancora era lo spirito che contava, non il risultato. I principi di appartenenza, fedeltà, amore, memoria, contrapposti al risultato a tutti i costi. E' amaro, oggi, constatare che non è più così. 
Il gesto finale, l'atto più egoistico d'amore che una persona può commettere, non è stato per uno sport come l'atletica, ma per quella finestra di libertà che ogni uomo deve sapersi e potersi ritagliare nella vita.

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