la giavellottista paraguaiana Leryn Franco |
di Gianluca De Luca - Cosa manca all'atletica italiana?
Dalle mie parti (sono napoletano) c'è un detto, che i giocatori di tressette capiranno al volo: “lle manca l'asso, 'o doje e 'o tre”, che per chi non lo sapesse sono le carte più importanti del gioco. Traduco subito la metafora in prosa: mancano le infrastrutture, manca un settore dirigente degno di tal nome, mancano buoni allenatori, mancano gli atleti.
Tutto sommato tanto basterebbe per definire disperata la situazione e chiudere qui il discorso: il malato è in fase terminale, aspettiamo solo che muoia. Brutale, ma tant'è.
Ovviamente, come tutte le vicende umane, anche l'atletica vive i suoi alti e bassi: è pur vero che dopo aver toccato il fondo si può ancora scavare prima di risalire, ma prima o poi si risale. Prima o poi.
Da dove ripartiamo?
Anche qui, come in tutte le vicende umane, bisogna ripartire da noi stessi. Alcuni problemi possono essere affrontati nell'immediato da ciascuno, altri richiedono tempi lunghi.
Dicevamo delle infrastrutture, ed in tempo di crisi economica è come parlare di corda in casa dell'impiccato. Ma attenzione, la crisi non gioca a solo sfavore dell'atletica, e porto l'esempio concreto che vivo quotidianamente. Insegno in una scuola d'atletica, circondato da 5-6 scuole calcio. Costo mensile scuola di atletica: 15 euro. Costo mensile scuola calcio: 50 euro. Ben più di un genitore, soprattutto se ha due o più figli, i propri decide di iscriverli alla nostra scuola per motivi economici. Ben venga (si fa per dire) dunque la crisi se sottrae atleti al calcio.
C'è anche da dire che i ragazzi che incominciano a correre sono veramente in condizioni pietose: i migliori hanno difficoltà a correre senza sbandare, i peggiori inciampano tra le loro gambe. O tempora o mores: ringraziamo la Playstation e i suoi genitori, il capitalismo e la società dei consumi.
Fuggo immediatamente dal discorso politico per sottolineare di nuovo come ciò che scarseggia sia pertanto la materia prima, gli atleti stessi. Quando poi l'atleta bravo viene fuori subentrano altri impedimenti, primo tra tutti l'insipienza di noi allenatori.
Ma in Italia sono più scadenti gli atleti o gli allenatori? Non saprei, ma entrambe le categorie soffrono -loro malgrado- della mancanza di professionisti.
Un allenatore è nel 99% dei casi qualcuno che lo fa per hobby e non per mestiere (insomma non si può sfamare con l'atletica) e un atleta sembra che possa fare il professionista solo se ha la ventura/sventura di entrare in un gruppo sportivo. Ventura perché “si è sistemato”, ora tiene il posto fisso e può pensare solo ad allenarsi, sventura perché -tranne pochissime e lodevoli eccezioni- in capo a due anni come atleta ha finito di migliorarsi. E' naturale: se già a 15 anni ti inculcano che il tuo obiettivo deve essere entrare in un gruppo sportivo, pochi ragazzi lo vedranno come un punto di partenza.
Per molti sarà piuttosto un punto d'arrivo... Speriamo che l'esempio di Marzia Caravelli ci insegni qualcosa.
Insomma, finché i gruppi sportivi resteranno la migliore opportunità che può capitare ad un atleta, rassegniamoci a prestazioni da terzo mondo.
Sul settore dirigente sicuramente chi legge avrà già un giudizio del quale posso intercettare il valore esprimendolo compreso tra scarso e veramente scarso. Chi ha afferrato i meccanismi elettorali (della Fidal) ha anche capito che, finché resteranno tali, sarà impossibile scalzare i soliti nomi dalle loro poltrone. Ma questa è tutta colpa nostra, di noi italiani, nessuno escluso. Avete presente quel detto che recita “italiani santi, poeti e navigatori”?
Beh, è una cazzata (e mi scuso pel francesismo). Ladri. Ecco cosa siamo, un popolo di ladri. Appena abbiamo l'occasione di mettere le mani nel “bene comune” lo facciamo. Ce l'abbiamo nel DNA, e pertanto ci vorranno un migliaio d'anni per cambiare.
Un bel guaio a ben pensarci.
Chiudo con una speranza per l'immediato futuro, considerato che quello più remoto è sicuramente buio. Avete notato come durante le Olimpiadi anche chi non capiva niente d'atletica parlava di Bolt e delle sue imprese?
Nella società dell'apparire (ahimè) quello che serve ad uno sport per apparire “di più” è un personaggio, come è Bolt o come può essere la Pellegrini nel nuoto o la Sharapova nel tennis. L'ideale sarebbe dunque un'atleta bella e vincente, ma (e non si scandalizzino i benpensanti di turno) basterebbe anche solo bella: confesso di non aver memoria di chi abbia vinto le Olimpiadi nel giavellotto femminile, ma la modella/giavellottista paraguaiana (Leryn Franco) la ricordo in maniera vivida.
L'atletica italiana -obietterà qualcuno- è roba seria, non abbiamo bisogno di invocare questi mezzucci per attirare l'attenzione. No, purtroppo l'atletica italiana non è affatto seria: semmai è seriosa.
E, rinnovando l'allitterazione, nasconde con un comportamento autoritario l'autorevolezza che le manca.
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