06/09/13

Senza professionismo non si vincono medaglie, a meno che...

Non so se sia nata da qualche parte qualche discussione sulla via al Professionismo italiano nell'atletica leggera su cui sto battendo da qualche tempo (qualcuno mi dà ragione, per fortuna, ragion per cui persevero). Io continuo a battere sul chiodo, perchè ormai me ne sono convinto: senza professionismo non esiste atletica di vertice. Anzi, estendiamo il concetto: senza professionismo non esiste lo sport d'elite, e le prestazioni da medaglia possono avvenire solo una volta in carriera, e non certo come 

E il professionismo non lo si ottiene con il volontariato, com'è arcinoto, ma solo ed esclusivamente con le risorse, ovvero in primis con i dindi. Inutile prenderci in giro. Quindi, metto io le mani avanti per Giomi: a Rio se andrà bene, sarà solo perchè il caso avrà voluto che fosse così. Perchè non si vedono francamente strade tramite le quali si professionalizzerà nessun azzurro nei prossimi tre anni, quindi, benchè vi sia chi detenga le potenzialità per arrivare a contrastare i migliori al mondo, di fatto non si potrà competere con chi degli strumenti della professionalizzazione attinge a piene mani. E visto che i meccanismi ad incastro sono sempre più stretti, vuoi anche per la crisi o una probabile fuga di sponsor dall'atletica, è probabile che in un sistema di risorse scarse, chi è professionista cerchi di impegnarsi di più e di investire di più su sè stesso. Quindi il professionista diventa più professionista. 

In uno scenario che si riempie sempre più di professionisti, dove vogliamo andare? Non sto qui a ricordare come l'atletica d'elite italiana sia in realtà un esperimento mal riuscito di semi-professionismo, in cui i soldi finiscono sotto forma di stipendio ad un gruppo di atleti ritenuti da un manipolo di società militari come i migliori in circolazione. Poi ci sono a disposizione le risorse della Fidal, quei 19 milioni di euro che sembrano tanti, ma che poi sono i guadagni che fa Bolt nello stesso anno. Bè, con 19 milioni di euro Bolt può permettersi un bel e cospicuo staff, e tutti gli annessi e i connessi, cosa che non può fare evidentemente il Signor Fidal con una moltitudine di atleti e tecnici da seguire. Anche perchè, è logico, i soldi se ne vanno via per mille rivoli: dall'apparato burocratico, a tutto il personale, agli stipendi dei vertici, ai viaggi, alle strutture centrali e periferiche. Bolt non deve pagare un intero palazzo burocratizzato, con tutta evidenza. 

Due anni fa pubblicavo un articolo sui finanziamenti forniti agli atleti top (probabili olimpici) da parte dell'USATF (la Federazione Americana di Atletica) comprandoli con quelli della Fidal: ebbene, nonostante le palesi differenze (e i risultati) la cifra era simile! 4 milioni di euro in entrambi i casi... all'anno. Allora non avevo ancora focalizzato che quei 4 milioni non erano che noccioline rispetto al vortice di denaro che gira attorno al professionismo e agli atleti americani professionisti. Ma quindi che fare? 

Ora dirò una cosa che mi attirerà molte antipatie... ma lo scrivo lo stesso. In Italia gli atleti "potenzialmente" top-player, appartengono nel 99% dei casi a formazioni statali (non chiamiamole più militari: la Polizia è stata smilitarizzata nel 1981). Come scrivevo, i 1500 euro medi che percepiscono, lungi dall'essere disprezzabili, vista la crisi senza vie d'uscita in cui ci si è infilati, non consentono alcuna forma di professionalizzazione. Come pagare un tecnico, un fisioterapista, un osteopata, gli integratori, i viaggi, con quella cifra? Alla fine l'unica vera risorsa che fa la differenza con gli "altri" è il tempo, perchè si è pagati per fare esclusivamente quello. L'atleta. Solo che poi questi atleti si affidano a tecnici non professionalizzati, perchè per quest'ultimi il tempo da dedicare all'atletica è residuale a causa degli umani patimenti, non essendo lo sport la fonte di sostentamento... almeno diretto. E quando si aggiornano? E quando sperimentano? E quando teorizzano basandosi solo sull'esperienza sul campo se un lavoro comunque lo devono svolgere? Quindi siamo di fronte ad uno dei tanti black-out del nostro circuito sportivo: atleta con risorse (pochissime) con tecnico senza alcuna risorsa. Un'atomizzazione di un Sistema, che in potenza vorrebbe essere integrato, ma che di fatto è disgregato in miriadi di unità scarsamente connesse tra di loro.

Ora, a me pare che una forma embrionale di professionalizzazione (con troppi paletti, invero) possa essere data inizialmente solo da un passaggio: gli atleti si devono radunare permanentemente in un luogo. I raduni Fidal una tantum non ho capito ancora che senso abbiano mai avuto, visto che in veste di stage di allenamento riescono a violentare i planning dei singoli atleti (magari organizzati con un anno di anticipo) come rami di cedro innestati su una canna di bambù. E' più che noto che la professionalizzazione passa per "gruppi" al seguito di staff dall'allenatore che ci mette poi il nome. Ma poi esistono realtà talmente ramificate, dove lo staff si dota di professionisti per ogni momento e fase dell'allenamento. Chiaramente, più soldi, più opportunità. Più opportunità, più conoscenza, più strategie vincenti. E più medaglie, più denaro... e si ricomincia.

Perchè quindi radunarsi in un posto? Per convogliare le risorse e farvi accedere più persone. Allo stato attuale siamo di fronte ad una parcellizzazione gigantesca di tentativi di emersione dei singoli atleti: ogni allenatore ha la sua teoria, e la persegue in piena autonomia, nel suo luogo di allenamento. Ora sembra che sia proprio il nuovo mandato Fidal a incentivare questa formula, abbandonando quella sorta di sistema integrato delle conoscenze, che forse è stato l'unico modo per diffondere qualche nozione (anche se spesso errate in quanto frutto di spirali di onnipotenza priva di substrato, visti i risultati). Ma abbiamo visto che gli allenatori italiani non sono professionalizzati, quindi, quando l'atleta evolve con dinamiche fuori controllo, è già successo troppe volte che quello stesso tecnico non sia poi riuscito a gestirlo, e nella quasi totalità dei casi, i missili sono implosi in volo. 

Allenarsi sulla pista di casa è sicuramente comodo per mille motivi: perchè si hanno tutte le agevolazioni di una vita tranquilla, i propri ritmi e i propri affetti. Ma nessun professionismo, per quanto detto e ridetto... penso che il tempo in più a disposizione non venga certo speso quotidianamente per la rigenerazione o la preparazione, visto che costa e quanto percepito non lo permetterebbe: presumo che il massimo per un atleta di medio livello stipendiato dallo Stato sia un massaggio una volta alla settimana, con i 25 euro dati in nero all'amico massaggiatore. Dove si vuole andare così? A vincere le Olimpiadi? Il mio amico Piero faceva sul forum una giusta constatazione: al Decanation 8 atleti su 20 non appartenevano ai gruppi sportivi. Il 40%. E questo nonostante la differenza di opportunità! Tutti le altre centinaia di atleti statali com'è noto non sono andati ai Mondiali: quindi dov'erano? In realtà non hanno colpe, perchè semplicemente non sono professionisti e come tali non sono tenuti a mostrare alti range di prestazioni.

Ecco, secondo me fare il professionista vuol dire fare una scelta di vita che comporti dei grossi sacrifici, talvolta tremendi: la scelta di stare a casa ad allenarsi comporta che le condizioni generali rispetto alla pre-entrata nel gruppo statale, non siano variate minimamente. Non avendo una quantità di denaro sufficiente alla professionalizzazione, che si fa oltre le due o tre ore di allenamento? Ne mancano ancora 21... mettiamoci le 8 ore di sonno: 13 ore al giorno. Che si fa? Ebbene, molti di questi ragazzi, giustamente, si iscrivono all'Università, oppure danno una mano all'azienda di famiglia, o fanno mille piccole cose, ma dubito che qualcuno di essi passi altre 3 o 4 ore a pensare a rigenerarsi. Da qualche altra parte del mondo, però, i loro avversari si allenano, si studiano, si fanno massaggiare, trattare... pensano e vivono d'atletica per molte ore del giorno. L'allenamento dell'italiano ci mette due giorni per essere recuperato, quello del suo ipotetico avversario uno solo, perchè avendo a disposizione delle risorse, le impiega per curarsi e riabilitarsi. 

Ecco perchè dico che se la Montagna non va a Maometto, è necessario andare alla Montagna direttamente. Formare gruppi collegialmente presenti nel luogo dell'allenamento per molte settimane all'anno, in centri (magari i rispettivi Gruppi Sportivi) che abbiano tutte le opportunità e le strutture mediche e terapiche che autonomamente non si potrebbero avere. Chi allenerebbe? Ecco la prima domanda che sorge d'obbligo. Ebbene, qui sta nello spessore intellettuale delle persone capire che in questi centri debba nascere e svilupparsi un'esperienza tecnica nuova, con soggetti che facciano i tecnici per professione, non insegnanti distaccati a seconda del mandato elettorale. Lo stallo sistematico degli atleti nella totalità delle specialità è la dimostrazione che c'è un corto circuito tecnico che va superato. Che siano centri federali, i centri già esistenti delle forze di Polizia, e qualunque altra cosa, se si vuole davvero avere un'atletica di vertice, bisogna fare un passo avanti. Quindi è perfettamente inutile che per anni si speri di vincere medaglie a livello internazionale, sperperando risorse "una tantum" se il tessuto sociale dell'atletica italiana è poco più che amatoriale! A questo punto sarebbe sufficiente un profondo bagno di umiltà, ammettendo l'impossibilità di competere con le organizzazioni più strutturate e ricche di risorse, e quello che verrebbe risparmiato lo si devolverebbe alla diffusione di questo meraviglioso sport tra i giovanissimi e a tutti i tesserati. Poi i risultati arriveranno. 

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