24/08/13

I soldi, i tecnici, Quinzi che vince Wimbledon e la religione del vittorismo

L'indizio è un ragazzino (alto 1,89) di nome Gianluigi Quinzi che vince l'edizione 2013 del torneo (giovanile) più importante al mondo di tennis, Wimbledon. Ok, se si parla di tennis, si parla, bene o male, di uno sport semi-elitario, per il quale servono per prima cosa soldi per iscriversi ai corsi di tennis, e che poi aumentano esponenzialmente se i giovani vogliono praticare l'attività agonistica. Quindi, togliamo il "semi": è uno sport d'elite. Non conosco da vicino il mondo e l'organizzazione del tennis, ma lo sintetizzo così: ci sono soldi. Come direbbe il mo amico barista Alberto: "Ghe ne mia banane!". Tutto si riconduce alla fine, al denaro. Ma non solo alla fine, ma anche all'inizio, e anche durante. C'è sempre bisogno di denaro in questa società, è un dannato circolo vizioso. Cinico, ma imprescindibile. Senza denaro (o "altre utilità", come si direbbe con linguaggio giuridico) possiamo stare qui per giorni ad invocare i principi più insindacabili dell'universo, ma rimarremmo ancora qui. Motori immobili, ma nemmeno tanto motori. Immobili, ad aspettare che con la sola forza del pensiero succeda qualcosa che cambi il mondo. Così li vedo i discorsi sul professionismo dei tecnici italiani.

Ma torniamo a Quinzi. Quinzi è figlio d'arte (la madre ex nazionale di pallamano, mi sembra). Il papà abbiente presidente di un circolo di tennis. Ha talento, e lo scopre il leggendario Nick Bollettieri, super tecnico fondatore della omonima Tennis Academy, colui che ha portato ai vertici del tennis mondiale tizi come Andre Agassi, Boris Becker, Pete Sampras, Monica Seles, Martina Hingis e per arrivare ai giorni nostri Maria Sharapova e le sorelle Williams. Bollettieri fornisce una borsa di studio a Quinzi, che già in età giovanile inizia a mostrare i prodromi della beatitudine sportiva. Poi Quinzi, mi dicono, dopo l'originaria borsa di studio, ha iniziato a versare la quota annuale a Nick... ovvero 100.000 bei dollaroni, più o meno (direi più che meno). Bè, si dirà, un investimento che verrà ammortizzato in breve... siamo nel ricco mondo del tennis! E Bollettieri, con quei 100.000 dollari, ecco che prepara gli atleti ad essere i migliori al mondo, con una selezione che viene fatta anche e soprattutto sui candidati (non basta evidentemente avere un sacco di soldi... ma quanto meno sapere tener molto bene in mano una racchetta), perchè la scuola si alimenta anche dai successi dei propri "scolari". Se iniziassero a fallire, l'Academy non sarebbe così rinomata e non potrebbe chiedere quei piccoli "contributi". Da Bolettieri vai se hai soldi, in primis, e se sei molto ma molto bravo, in secundis. Sarà poi lui a proiettarti nel firmamento delle stelle del tennis.

La scuola di Bollettieri rappresenta naturalmente un esempio in cui lo sport diviene business. Non solo tennis, ma anche tutte le attività collaterali che necessitano ad un ragazzino (quindi la scuola vera e propria in primis). E del resto, anche qui in Italia, le scuole-tennis più rinomate (ricordo la Vavassori), hanno inteso proprio creare percorsi sportivo-didattici in cui chi si iscrive, segue i ragazzi dall'A alla Z. Miniprofessionisti embeddati in un ambiente che per 24 ore al giorno gli ricorda quello per il quale li hanno chiamati a dare il meglio di sè. Quindi all'interno di un'organizzazione con i migliori tecnici (pagati per questo), insegnanti, cuochi, terapisti... Se da un punto di vista etico la cosa fa rabbrividire (alla fine a questi ragazzi viene tolta una parte di giovinezza per un investimento sul futuro del tutto opinabile), dall'altra non posso riflettere che oggi lo sport che si impone a livello internazionale richieda elementi di natura professionistica sempre maggiori e sempre più totalizzanti, che limitano sempre più la "libertà" di disporre liberamente di sè stessi da parte degli atleti. E che il professionista si deve circondare da persone che sono esse stesse professioniste nel loro campo. E tutto questo perchè il fine non è più rappresentato dai valori dell'olimpismo e della sempiterna gloria, ma assume fondamentale importanza il portato di accesso alle risorse (guadagni) che le vittorie portano. Vincere vuol dire guadagnare, appunto. Guadagnare significa alimentare le strutture, i meccanismi, le persone, gli staff che ti aiutano a vincere (spesso anche quelli illeciti). Professionismo, appunto.

E veniamo a noi, passando dal tennis. L'atletica internazionale di vertice si struttura ormai su percorsi professionistici consolidati. Il talento incredibile quanto dura, nello sport moderno, se non supportato da una struttura professionistica? Un anno? Due? Dobbiamo tornare a fare i sempre odierni esempi nei nostri confini e dei nostri supercampioni mai espressi? Cosa, se non l'assenza di circuiti organizzativi professionistici ha impedito a questi talenti di esprimersi al meglio? Cosa, se non la gestione famigliare e all'italiana, ha fatto in modo che si riducessero a carichi per le casse dello Stato? Le imprese a sorpresa fanno parte dello sport, certo, ma sono i professionisti quelli che durano negli anni, ovvero quelli che scrivono la storia dello sport. Se poi il talento diventa professionista, bè siamo di fronte ai perfect one.

Chi vince le medaglie, chi combatte per accedere alle risorse (nella nuova accezione dello sport), lo fa ormai con investimenti pazzeschi (investire per guadagnare... è una legge tanto banale). Negli States la membrana tra sport di squadra e l'atletica non esiste nemmeno, e lo sport professionistico investe nella ricerca. Nei tecnici. E chi è più bravo, emerge e inizia ad avere un mercato. Mercato, guadagno, investimento, successi... e si riparte nel circolo virtuoso. Se tu tecnico non sei bravo, ti devi dar da fare per emergere, perchè è il mercato che determina il tuo successo. In Italia un discorso del genere non è nemmeno affrontabile, perchè nella completa assenza di risorse e del mancato riconoscimento di un pizzico di merito su chiunque (se non per scelta divinizzante dall'alto), tutti si ritengono dei Mourinho, anche se spesso ne sanno meno degli atleti che allenano.

Vi voglio far riflettere sulla limitatezza culturale dei tecnici italiani. Pensate ad esempio solo a come la storia tecnica in Italia abbia di fatto obbligato tutti i tecnici a percorsi vincolati, a-professionistici: Vittori, ancora oggi, tuona contro tutti quelli che propongono modelli diversi dal suo, giustificando il successo di quasi tutto ciò che non è "Vittori" allo squallido doping. I tecnici italiani non hanno mai avuto possibilità di confronto con l'estero se non con il filtro della Fidal (quindi lo stesso establishment), e quelle poche volte che è successo con teorie affini o simili alle sue. Di Vittori, appunto. Chi ha ricoperto cariche organizzative nelle strutture tecniche dopo di lui in Fidal, è stato sempre un suo discepolo. Quindi la religione di Stato si è tramandata di generazione in generazione tra i tecnici responsabili, puntando sulla impossibilità del resto del popolino di avere rapporti con l'esterno. L'impianto generale, la filosofia, è sempre e solo stata la sua. E tutti i tecnici a seguire quella filosofia, con piccole variazioni sul tema. Sempre concesse sub judice. Ora sono arrivati i problemi, perchè con internet e senza particolari investimenti, finalmente la cortina di ferro è finalmente caduta. E naturalmente come tutti coloro che devono conservare lo status quo ante, il buon Vittori ha iniziato da qualche tempo a combattere lo sgretolamento sistematico delle proprie teorie, che, per inciso, si sono fermate ad almeno 25 anni fa. Ora, non sono io a sostenere che Vittori sbagli e che abbiano ragione i jams o gli americani, ma dico che nell'univocità di vedute si commettono gli errori più grossolani, proprio per l'assenza di un contraddittorio, di una crescita collettiva. Non aver consentito un dibattito o una critica per decadi sulle teorie di Vittori, vera e propria religione di stato che non ha mai ammesso eresie, si è consentito di fossilizzare le menti, inebetito coloro che dovevano riflettere. Poi magari uscirà che Vittori aveva pure ragione, ma lo deve stabilire la scienza (cioè le analisi, le comparazioni, gli studi, gli errori) e non certo la sola parola di Vittori, che non è di certo un infallibile demiurgo. Questo è un esempio di aprofessionismo, di religione dello sport, che, moltiplicata per tutte le discipline, ci ha portato ad essere una nazione residuale al consesso internazionale.

L'altro ieri proprio Vittori scriveva sulla Gazzetta che sarebbe un errore convocare tecnici stranieri (che sarebbero uno "schiaffo" ai tenici italiani) e che in Italia ci sono le risposte tecniche. Mi permetto: una visione miope della situazione. E mi rifaccio a quanto sopra scritto. Possiamo avere anche il miglior materiale umano dell'universo, ma senza risorse (vil e maledetto danaro!) le conoscenze rimangono le stesse. Cosa facciamo? Facciamo un rimpasto di conoscenze per presentarle meglio? Se le conoscenza di una società è per dire 100 e non ci sono nè studi, nè interscambio con sistemi esterni, le conoscenze (e i risultati ad esse collegati) rimangono sempre e comunque 100. Questi validissimi tecnici italiani da dove mutueranno le loro conoscenze, se non hanno risorse per nessuna attività di ricerca e in senso esteso, scientifica? Ve lo dico io: dall'esperienza. Esclusivamente dall'esperienza. Cioè continueranno con i loro soliti cavalli di battaglia, e, spesso, con i loro pacchiani errori. E le naturalmente, con le teorie di Vittori, per chi ci ha campato per secoli.

Che poi questi tecnici, cosa dovrebbero fare? Fare i capipopolo dell'esercito di tecnici e trasmettere le loro conoscenze superiori tramite lo Spirito Santo? Secondo me è un errore sia puntare sui tecnici italiani, perchè non sono professionisti e non certo per colpa loro, e di conseguenza non possono far fare i salti di qualità ai propri atleti. Sia su quelli esteri italianizzati, perchè il loro impatto sarebbe limitato a pochissimi elementi, come si è dimostrato con Petrov (ad uso e consumo del solo Gibilisco), o quelli dei lanci di qualche tempo fa. Figurarsi poi se si son mai visti tecnici esteri dello sprint in Italia dai quali ottenere qualcosa... quindi, il modo migliore attualmente per vincere una medaglia, è quella di spedire gli atleti promettenti all'estero, e sperare che questi, inclusi in percorsi professionistici veri e propri, riescano a massimizzare la loro esperienza. Bene han fatto Grenot e Galvan. Bene farebbero altri. In Italia non c'è alcuna base per creare un'atletica professionistica, leviamocelo dalla testa. Non ci sono le strutture, le basi, gli staff, i medici, i terapisti, per creare dei gruppi professionistici. Perchè non ci sono soldi per irrigare tutte le foglioline della pianta. E gli atleti che di fatto sono stipendiato per farlo, di fatto vivono di uno stipendio che non gli permette di essere ne carne nè pesce. Non hanno e non possono avere autonomia gestionale. Con 1500 euro al mese come si fa a pagare tecnico, massaggiatore, fisioterapista, integratori, viaggi, metodi rigenerativi... magari non solo una volta al mese. E così, l'unica differenza con chi non è nei gruppi sportivi è il tempo a disposizione. Pensate voi che professionisti che abbiamo. Ma dove vogliamo andare?

Quindi, che fare?

L'ingenuità della politica atletica italiana e segnatamente della Fidal di fronte a queste dinamiche internazionali e interne fa quasi tenerezza. I tecnici italiani non potranno mai inventarsi nulla di nuovo, non potranno mai essere professionisti senza avere risorse a disposizione. Il problema del reclutamento è un falso problema, o un problema di riflesso a quanto scritto qui sopra. Tutte le risoluzione collaterali e normative, non sono che piccoli palliativi. E' in definitiva lo spostare le risorse scarse da un comodino all'altro. E' per questo che non si comprende come mai, negli anni, si è sempre più resa l'atletica uno sport elitario (come la quasi inaccessibilità ai campionati italiani assoluti), e non uno sport a disposizione dei più, a dimensione cioè di sport popolare, come il ciclismo. Si sono susseguite una rete di leggi e leggine che invece che diffondere l'atletica, l'hanno resa meno appetibile (come la regola del numero massimo di gare in una specialità per i cadetti e i ragazzi... o le limitazioni per i master). Uno sport che per assenza di risorse dovrebbe necessariamente essere popolare, che viene gestito come se fosse elitario. Qui c'è uno dei più grandi errori. La diffusione dell'atletica, porta, oltre ai tesserati, al crearsi di rete più estese di soggetti che parlano, discutono, vivono... di atletica. E' uno dei pre-requisiti che spingono le aziende ad investire in un campo: se c'è coesione, le informazioni vengono scambiate, e si ritiene appetibile quel mondo. Oggi il tessuto dell'atletica italiana è lacerato e sfilacciato, e non sembra sussistere, in primis, un'organizzazione funzionale, fattiva e votata agli obiettivi.

Comunque, l'ho fatta ancora una volta troppo lunga: mi vien da sorridere guardando ai vani tentativi di ottenere risultati sportivi spremendo le rape qui in Italia, e tutto basandosi sul volontariato. Di quale professionismo parliamo... a gratis?

Invece di lamentarsi, forse, sarebbe giunto il momento di trovare il modo di far confluire risorse in questo sport. Sperare che sia sempre mamma Fidal a trovare le soluzione (e le risorse) è la cosa più illogica di questo mondo, soprattutto per i tecnici. Anche frazionandole fra tutti, queste benedette risorse, ognuno avrebbe giusto un caffè gratis. Con quel lodevole e aromatico caffè si avranno le idee risolutive che risolveranno i problemi dell'atletica italiana?

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